FOTOCOPIA DEL TESTO: CARLA LONZI, DIPINTI DI MERZ, CATALOGO DELLA MOSTRA, TORINO, GALLERIA NOTIZIE, 11 APRILE 1962, pp. 1-6

(Lors je cognus que, pour deüil appaiser,

Il n’est thresor que de vivre à son aise,…)

F. VILLON

Mario Merz si deve essere accorto fin dall’inizio della sua attività di pittore, una decina d’anni fa, che in lui il dipingere rispondeva a un procedimento talmente ingiustificabile, che il suo modo di affrontare la tela e di condurla a una riuscita si profilava così caotico da escludersi ogni possibilità di identificare la propria con una delle fenomenologie pittoriche note alla cultura. È probabile, dal momento che ammirava sinceramente i pittori pieni di idee, certi della loro vocazione e della loro tecnica, prensili di ogni novità, che si sforzasse, talvolta, di mettersi al passo di una gioventù tanto brillante e irresistibile. Ma, per quanto potesse partire deciso, durante il lavoro il quadro gli si complicava a tal punto di goffi segni ritornanti, di penose sovrapposizioni di colore, di incertezze fino all’ultimo persino nel soggetto del dipinto, che l’aspirazione ad accordarsi con un ritmo di creazione cosciente dei propri mezzi e della propria ricerca, si confermava ogni volta meno probabile. La sua vita stessa, peraltro, si andava costituendo in maniera singolare e come respinta ai margini, senza prospettive, senza ambizioni, sempre sul punto di perdersi in esperienze fallimentari. Solo pochissimi finirono per considerarlo un pittore; spesso, anche, interrompeva di lavorare; e in confronto a una cultura figurativa sempre più aggiornata, le intenzioni di Merz apparivano sempre più sprovvedute. Qualcuno, tuttavia, gli comprava dei quadri; qualcuno, per amicizia ma anche per una specie di suggestione di fronte a un’opera e a una personalità inclassicabili, accettava di comprargliene per poche migliaia di lire. Tra loro c’è chi, oggi, può vantarsi di aver scelto anche molto bene; facilmente i quadri di Merz li distruggeva, altri li abbandonava qua e là, alcuni se li è sempre portati dietro, per ragioni ignote essendo tra i suoi peggiori.

Ora che, dopo un lungo soggiorno in Svizzera, Merz ricompare con la produzione più recente, non è più eccessivamente audace affermare di trovarsi di fronte a un autentico pittore e a uno dei lavori più seri della giovane pittura, non solo italiana. Non è occorso, in fondo, molto tempo a dissipare l’impressione strana e divagante di una personalità che, al contrario, si formava nella concentrazione più esclusiva delle sue proprie ragioni personali a cui l’andamento corrente della cultura in quegli anni a Torino, non poteva che offrire che la sensazione di un pericolo contro cui trincerarsi. I suoi coetanei, infatti, rientrano con fedeltà e normalità perfino eccessive in quella problematica della cultura figurativa fatta per sommi capi, che appare il limite essenziale di quello che l’Italia ha saputo trarre dalle invenzioni venuteci dall’America a da Parigi. Al confronto Merz sembra uno di quegli uomini che percorrono tutto un itinerario disagevolissimo e che stupisce chi lo osserva dalla posizione stabile dei propri conforts culturali; al contrario quell’itinerario, nel momento in cui è vissuto, si rivela come l’unico agevole perché l’unico possibile. Per Merz partecipare a quella cultura generalizzata e formalistica sarebbe stato come partecipare a una irrealtà.

Perciò le sue opere, dal ’52 a oggi, hanno la stessa caratteristica: non si agganciano a nulla, non rientrano nell’alveo di una cultura che offra loro dei termini noti in cui orientarsi (com’è il caso del francese Messagier e persino dell’americano Twombly, seppure in altro senso); se viene un paragone è con i primi espressionisti tedeschi. Cosa distingue il colore puro di questi dal colore dal puro dei fauves? Dietro un giallo o un rosso di Matisse siamo in grado di ricordare, cosa che predispone al benessere, i rossi caldi di Corot o gli ori atmosferici della miniatura medioevale; dietro gli azzurri, i violetti, i verdi stridenti di Nolde o di Kirchner non c’è altro appiglio che la loro insicurezza e la loro volontà di dare testimonianza. Il linguaggio pittorico, in tal caso, è sentito dal pittore come qualcosa di misterioso e di spontaneo, riluttante all’analisi, inafferrabile nelle sue ragioni profonde, sospeso in un vuoto senza punti cardinali: non si può acquisirlo, non si può sentirsene padroni, la sua vitalità sfugge al controllo stesso dell’artista. Solo per esperienza Merz sa approssimativamente che i risultati che sul momento lo soddisfano di più sono i meno importanti mentre quelli che, esasperato, butta via come frutto di una tensione pesantemente sostenuta si rivelano, una volta recuperati (quando è possibile), i più decisivi per lo sviluppo del suo lavoro. A questo è legata la sensazione più straordinaria e che può sembrare anche la più urtante dei quadri di Merz: i suoi segni hanno una giustificazione obiettiva, si articolano fra loro con la giustezza con cui si articolano i momenti della sua vita, inaspettatamente, senza un principio che permetta di prevederne il corso.

L’opera di Wols, di Tobey ci hanno abituato a concepire un quadro come un luogo di malessere, di estasi: un quadro di Merz va letto diversamente. Qualcosa è lì in una specie di screziatura naturale; una sovrapposizione assidua, esigente, l’ha portato a compimento. Il dramma non esiste più e neppure l’elegia: ogni segno ha tratto il suo peso, la sua intensità, la sua struttura in un momento della vita, fluiscono uno nell’altro consapevoli del tempo che neutralizza ogni eccesso. Inventare per Merz è entusiasmarsi di questa scoperta (che è un po’ l’approdo del suo andarsene per contro proprio) e ritrovare in sé la sorpresa di sentirsi partecipe di un organismo vitale che lo giustifica. Sia davanti allo splendore acerbo degli incastri (foglie, alberi, ecc.) del periodo iniziale, sia davanti alla coesione sciolta e indubitabile dei segni nella produzione attuale, l’indice della riuscita di Merz sta nella particolare commozione che prende lo spettatore alla visione, tra le più illuminanti dell’arte recente, di una sprovveduta e di un abbandono totale assunti come unica verità.

CARLA LONZI

Volerci bene come se non fossimo sorelle

Crescere insieme, dividere spazi e affetti, amore, rivalità, conflitti. Il dover a tutti i costi «volersi bene come sorelle», cosa c’è di vero nei luoghi comuni, nell’affettività coatta? Come superare le barriere, i silenzi, l’omertà della famiglia per riconoscere nell’altra un’identità autonoma della parentela?

non-intervista a Carla e Marta Lonzi di Rivolta Femminile

Sorellanza: un’ideologia che nasconde l’assenza di rapporto

ROMA – Sul mezzogiorno di una mattina di tardo giugno salgo a casa di Carla Lonzi per un’intervista che parta dal suo libro «Taci, anzi parla. Diario di una Femminista», in cui si intersecano con una presa di coscienza della sua vita un’infinità di temi che ci riguardano, sullo sfondo costante di un rapporto difficile e sofferto con le due sorelle. Carla e Marta, sorelle tra loro e Grazia che di sorelle non ne ha. L’intervista non si fa, nasce invece, sul filo di un discorso non ideologico, una lunga conversazione che tocca i punti più vivi di ciascuna di noi, in questo momento.

Carla. «Taci, anzi parla»: c’è sempre questo dilemma nei rapporti. Lo senti dentro di te, lo senti negli altri. Anch’io spesso mi dico «Carla, taci, lascia le cose come sono» e però un’altra voce mi spinge a parlare perché è l’unico modo che mi permette di contattare gli altri, di uscire dai ruoli familiari, dai ruoli delle relazioni…

Grazia. Nel tuo libro, nel tuo diario hai messo in luce con chiarezza e coraggio gli aspetti profondi e drammatici del rapporto tra sorelle (che non sono certo quelli che vengono fuori in un rapporto tra amiche…).

Carla. Per me è stato importante riuscire a formulare via via il disagio, chiedermi ogni particolare forma di disagio cos’era, come poterlo esprimere e che peso vi aveva l’altra, la sorella. Questo mi ha permesso di scrollarmelo di dosso e di capirne la radice. In fondo, come appare dal titolo, è proprio il silenzio, la sconoscenza reciproca determinata dal silenzio, minore o maggiore, a creare questa barriera che ti condiziona nel momento che hai intenzione di parlare, di affrontare i problemi e formularli. Ti senti nell’impossibilità di farlo e diventa anzi una grossa colpa voler parlare dal momento che l’altra mantiene una riservatezza assoluta. Non avevo altro modo che prendere la parola autonomamente, così ho scritto…

Grazia. «Parlare» dovrebbe servire a liberare chi «parla» ma anche l’altra cui il «parlare» è diretto…

Carla. Si determinano dei contraccolpi comunque. Si esce dalla stasi e dalla consegna del silenzio. Sebbene questo «parlare» sia emozionante – chi lo fa sente una scossa – l’uscire dal silenzio non è proprio ovvio, ti fa entrare in una tensione forte. Il silenzio invece ti fa ricadere in una specie di zona franca, anche se ha i suoi ribollimenti. Senti che sei protetta, non hai ancora parlato, non è trapelato niente, sei quella che gli altri vedono, non li hai smentiti. Smentire un altro su quello che sta pensando di te, nel bene e nel male crea un certo trauma a te stessa e anche all’altro perché lo priva di un’immagine che gli andava bene. È quando rompi questa immagine che entra una tensione, che poi è il rapporto, che non è un fatto blando, scontato…

Grazia. È imbarazzante leggere il tuo libro perché ti sembra di guardare dentro a una persona e alla sua vita, poi vieni coinvolta. A me, che non ho sorelle, ma che ho tre figli, ha fatto una grande impressione questo rapporto che dall’infanzia segna poi, così fortemente, tutta la vita…

Carla. Tu immaginavi una cosa più idilliaca?

Grazia. No, pensavo che fosse una situazione di conflitto che però, con l’età adulta, venisse poi superata se poi avevi dei referenti che ti portavano in questa direzione. La tua storia mi ha dato da pensare. E quello che mi ha colpito è stato come ogni gesto di madre abbia poi un peso così forte tra i figli, tra fratelli, tra sorelle. A me capita che non riesco a trattare i miei figli uno a uno come persone: adesso sono grandi, è diverso ma quando erano più piccoli tendevo a trattarli come un gregge, a fargli fare le cose insieme. E questo è sbagliato, non ti rendi conto che è una carne proprio viva quella su cui…agisci…

Carla. Sono individui differenti.

Marta. Prima pensavo che, facendo un gesto equilibrato per tutti i miei figli, anch’io ne ho tre, ognuno ne avrebbe ricavato una verità soggettiva. Mi mettevo su un piano di giustizia, poi ho teso più a dire una mia verità in modo che i figli potessero dire la loro. Questo l’ho trovato un momento che ha dato molto slancio nei rapporti in famiglia. Ed è una cosa che, nel momento in cui l’avvii, non la vuoi più fermare. Come potresti farlo? Come l’autocoscienza… Per questo è sorprendente quando a volte incontri qualcuno che ti chiede se fai ancora autocoscienza. È una barzelletta. Come dire non so «Non respiri più?».

Grazia. Vuol dire non aver capito. Averla vista come un fatto…

Carla. Sì, come un fatto momentaneo, un intervento femminista nella tua vita, e poi prosegui in qualche modo.

Marta. Come se si possa pensare di limitarla a un aspetto, non so «rapporto con l’uomo» oppure «ruolo di madre». E il resto?… Invece è uno sconvolgimento che si riversa su tutto.

Carla. Vorrei dirti questo sul tema della sorellanza che come giornale ci hai proposto. Questa parola noi non l’abbiamo usata mai, se vai a vedere nei nostri libri non c’è, ci sono delle sorelle carnali, ci sono delle amiche del gruppo e c’è un desiderio di comprensione tra donne, però non è stata mai definita come sorellanza. Intanto c’è il corrispettivo maschile di fratellanza che non ha dato molti risultati e chiaramente sono terminologie ideologiche che tendono a coprire la mancanza di rapporto e a mettere le relazioni su un piano idealizzato. E poi proprio il nostro sforzo è stato quello di portare ogni tipo di rapporto caratterizzato dal simbolo, e perciò dal ruolo – padre madre sorelle fratelli -, portarlo a rapporto diretto. Quindi la meta non era la sorellanza che è un prototipo di rapporto idealizzato con i suoi tabù, censure, schemi, la meta è stata quella di arrivare a una conoscenza da individuo a individuo, naturalmente tenendo presente in quanto donna, ma in quanto donna non vuol dire sorellanza, vuol dire un elemento della mia identità di base. Questa ipotetica sorellanza significa confrontarsi proprio l’una con l’altra dentro un ruolo, in funzione poi dei genitori. C’è stato molto disorientamento nel femminismo quando si è partite con la sorellanza. Vedi io sono felice che Marta sia mia sorella, però il mio traguardo è stato quello di riuscire a vedere il mio rapporto con lei come un rapporto particolare, ma con quell’elasticità, quell’interesse, quella possibilità di distacco come se non fossimo sorelle.

Marta. Da questo rapporto, nel momento in cui chiarisci tutti i passaggi, ti viene una maggior coscienza distinta. Io mi sento più distinta da Carla che dall’altra sorella di cui parlavate all’inizio, con la quale mi sento indifferenziata. Ho un legame di sorella e anch’io non so quanto mi potrò differenziare. Non so quanto lei mi possa vedere, e quanto io veda lei perché quando c’è il silenzio di mezzo prevale il legame di sangue. Invece adesso con Carla penso «eh già, siamo sorelle»

Carla. Devi sapere che io ho modellato il rapporto con Marta sul rapporto con le amiche. Poter avere quella libertà, quella franchezza e anche scaricarsi il pathos infantile di dosso per diventare adulte e dirsi le cose senza morirci sopra come succede coi familiari. E adesso mi pare che ci siamo.

Grazia. Non sono facili questi rapporti perché non è facile mettersi in discussione fino in fondo…

Carla. Purtroppo questo è un tipo di strada che dà i suoi frutti se la percorri tutta. Se non la percorri interamente puoi avere più danno che se non la percorri per niente.

Grazia. Sì, perché guasti un assetto e non riesci a riprodurne un altro.

Carla. E poi perché l’altra sente sempre quel punto dove tu ti trinceri: così non ha la fiducia necessaria e lei stessa si tiene un punto dove si trincera. E il confronto di verità mantiene sempre una riserva mentale. Quella riserva mentale pregiudica tutto. È quello che è accaduto nel femminismo dove, quanto più una si metteva in gioco, tanto più poteva poi andare avanti: tutte le remore che hanno fermato, limitato questo processo si sono ritorte contro. Non essendo arrivata all’altra sponda una si trova la vita più invivibile di prima: ha perso la quiete apparente che è quella del ruolo, non ha raggiunto una sicurezza di coscienza e rimane tormentata. In generale quel femminismo che ha buttato sulla piazza tanta angoscia femminile, tanta problematica, esigenze, insoddisfazioni senza tirare le conseguenze ha finito per danneggiare la causa delle donne perché ha messo l’uomo di fronte a un materiale umano che è lui a interpretare e indirizzare con la sua cultura e la sua coscienza se non lo fai te fino all’ultimo. Quindi hai dato alla controparte una visuale del territorio senza essere tu a decidere cosa fare del territorio. Così decide lui. E questo è un problema.

Marta. La controparte ha una tendenza a elaborare l’esperienza umana nostra in un modo che è proprio quello che rifiuti.

Carla. Ha una cultura, noi non ce l’abbiamo, allora tutto questo svisceramento che non porta poi a una cultura, cioè a una coscienza nostra, a una costellazione di individui donne coscienti, dà all’altro la possibilità di capire, quindi di gestire meglio la condizione femminile. È rimasto questo conato di libertà, di individuazione che poi non si realizza, allora viene rafforzata tutta l’altra parte.

Grazia. Hai dato strumenti, informazioni…

Carla. Tutto questo doveva essere un momento per arrivare poi a poter intervenire noi nel mondo e vedere noi le sue contraddizioni, contrastando quella cultura che si basa su un unico punto di vista. D’altra parte se non ce n’è un altro… Un’aspirazione che non si realizza non c’è problema, l’uomo assume tutto lui.

Marta. E nello stesso tempo tra le donne questo grande sforzo che non ha portato a niente le riconduce…

Carla. All’ovile. Stiamo vivendo questo.

Marta. Non puoi avviare un processo di smantellamento senza raggiungere uno sbocco. Le generazioni che vengono dopo, è chiaro, il fallimento della madre lo colgono immediatamente.

Carla. E poi fanno diversamente dalla madre.

Marta. Se non arriva la madre a trasmettere uno sbocco la figlia non la segue. Io stessa non la seguirei. L’istinto di salvarsi è troppo forte. Inviti proprio a passare dall’altra parte. Tutte le volte è successo così.

Carla. Si rilancia l’emancipazione, adesso, ha un credito che aveva perso anni fa.

Grazia. Sono stati raccolti alcuni contenuti…

Marta. Sono sempre quei contenuti che danno un’apparenza di vitalità all’emancipazione.

Grazia. E Marta cosa ha provato leggendo «Taci, anzi parla?»

Marta. Ho avuto una gamma di sensazioni, però ha prevalso questo senso di un’altra che ti invita a dire la tua, a chiarire. Quando l’ho letto, gli scogli fra noi erano già stati superati. Nel libro c’è una serie di episodi che io naturalmente avevo vissuto dalla mia parte ed è stata una sorpresa vedere come Carla li inquadrava e viveva. Nel momento in cui lei è uscita fuori anch’io sono stata spinta a trovare un’uscita. Questo è l’aspetto stimolante che poi vorrei portare molto a fondo.

Carla. Quando accetti che le verità sono individuali e multiformi, e però devono trovare un loro punto di accordo, non c’è più quell’accanimento come quando ti illudi che la verità è una che tu devi portare l’altra alla tua verità e l’altra ti vuole portare alla sua. Credi che è un sollievo, è un altro vivere. Chi se la pigliava come missione, come me, chi se la pigliava come sopruso, come prevaricazione di quella che crede di avere una missione, come lei. E ognuna, dal proprio angolo visuale non poteva che viverla come missione e come sopruso fintanto che non capisci cosa c’è dietro quella missione e quel senso di sopruso.

Grazia. Missione come portatrice di verità?

Carla. Come elemento suscitatore di verità. Allora puoi fare dei gesti che non tengono in considerazione l’altra in quanto individuo, ma in quanto oggetto della tua missione. Quando ti rendi conto che, nonostante la tua buona volontà, hai la tua parte di errore, che credendo di rispettare gli altri non li puoi rispettare davvero perché è solo quando gli altri si rivelano che tu capisci chi sono e li puoi rispettare, hai questa scelta, a quel punto sdrammatizzi, accetti la tua parte di errore.

Marta. La drammaticità per me è collegata al fatto che l’altro non è disponibile. In rapporti impostati così la drammaticità è sempre creata dallo stop che l’altra mette improvvisamente, per bisogni suoi, per difese, certo; però anche tu nello stesso tempo sei arrabbiata perché non ti stai difendendo e quella decide di difendersi. Allora dici «Scusa, mi armo anch’io».

Carla. Però c’è quella che ha bisogno di tempo, e io lo capisco che non può in quell’incontro, in quel momento dare tutto e risolvere. Non si risolve entro stasera, va bene. Piano piano sono arrivata a accorgermi e apprezzare quello che la situazione che si sta muovendo, sta dando. Non sono più così impaziente come potevo essere.

Marta. Nel momento in cui capisci che questo processo di verità è soggettivo nel rapporto con gli altri, hai molto amore per la tua verità soggettiva, naturalmente, allora hai molto amore per la verità dell’altro. Perché c’è come una coincidenza. Prima dicevo che c’erano nel libro queste verità di sorpresa derivate dall’episodio in comune in cui io vedo la mia parte e poi Carla si rivela con un arrovello assolutamente impensabile, allora viene anche un po’ di humour sui rapporti perché capisci che questo è ciò che accade. Poi vengono fuori gli aspetti che sono proprio miei, per esempio mi sono sentita centrata su delle caratteristiche fondamentali. Nel libro ci sono delle frasi che Carla dà come oggettivi: collezionando una serie di momenti e di situazioni attiva a una sintesi che coglie la persona nella sua verità prevalente, ecco. Così ho ricevuto un’oggettivazione che mi ha dato molta sicurezza, perché io sono sempre dentro di me, non so quanto viene fuori… mettiamo una mia lealtà. Non lo so, perché poi sono smentita dai rapporti; questa mia lealtà viene presa come strafottenza, capita continuamente. Quando ho visto che dal rapporto di coscienza mi è stata riconosciuta, ho preso forza. Ho capito che quella lealtà che avevo messo anche in altri rapporti ed era stata interpretata male, ricadeva su degli inciampi relativi a questi. Io il dato di fatto di me non lo posso sapere se non me lo rivela un’altra persona. È un’oggettivazione di me, sento che esisto.

Carla. Nel diario a forza di analizzare, di indagare e di mettermi in gioco per tutta quella parte che mi può far vedere le cose in modo interessato, finalmente mi sembra di avere toccato una realtà vera. E anche per me è importante che tu mi dia la conferma. «Hai detto questo di me e effettivamente mi sento così».

Marta. Sulla realtà va bene. Il fatto è che devo essere pronta a accettare di avere un aspetto, chiamiamolo negativo. Egocentrica, oppure che appena mi si presenta il destro tendo a impormi. È sempre l’osservazione dell’altra che smaschera i meccanismi che hai. Rivela così la disponibilità della tua coscienza, se è pronta oppure no.

Grazia. Anche perché non è detto che l’altra abbia colto giusto. Da lì puoi iniziare il confronto, puoi trovare un terreno comune in cui indagare.

Marta. Sì, perché l’altra, nel momento in cui afferma che sei egocentrica si mette in gioco, infatti può risultare che è lei egocentrica.

Carla. Allora lì si è dato il via a un qualcosa su cui ognuna starà molto attenta per vedere qual è il punto di verità di questo giudizio.

Grazia. In questa pagina di Q.d. sarebbe bello riuscire a mettere a fuoco questi alti e bassi del rapporto tra sorelle: questa conflittualità, spesso indotta dai genitori.

Carla. Più che induzione forse è una concomitanza.

Marta. È che le sorelle hanno questo punto di riferimento in comune.

Carla. C’è una lotta alla conquista di un posto stabile nell’affetto e nella stima dei genitori.

Grazia. Io che sono figlia unica non riesco a rendermene conto. Per me è tutto liscio per cui, dopo, il rischio è stato quello di crescere con un egoismo di fondo, poi compensato da circostanze successive. Ma certo sono stata abituata a avere tutto per me: tutto l’affetto era per me.

Carla. Non sei abituata a lottare per ottenere la tua parte.

Grazia. Però ho perso allora il piacere del condividere, che è quello, no? Il buono e il cattivo. E quindi il piacere di avere un appoggio, anche questi rapporti, se poi li riesci a risolvere, come nel vostro caso, diventano belli tra sorelle.

Marta. Ho capito adesso che le mie figlie sono in un momento in cui tendono a questo obiettivo. Infatti mi hanno chiesto «Ma tu andavi d’accordo con Carla anche da piccola?», perché vogliono sapere se anche loro possono arrivare…

Grazia. A questa coesione…

Marta. Hanno l’esigenza di capire se è colpa dell’una o dell’altra che questo obiettivo ancora non si realizza.

Il libro «Taci, anzi parla: Diario di una femminista» pagg. 1300 lire 8.500 si trova nelle librerie, ma può essere richiesto direttamente a: Scritti di rivolta femminile sdf p.zza Baracca 8 Milano 20123 c.c.p. 12165205

Quotidiano Donna, n. sconosciuto, data sconosciuta

Storie di «povere pazze»

Prima erano i roghi, ora i manicomi

Finché non lo constati di persona entrando in un istituto psichiatrico, parlando a lungo con le donne che vi sono rinchiuse, non ti sembra possibile che l’unica loro «malattia» sia quella di aver derogato alle regole ingiuste e oppressive che questa società impone a tutte noi donne

Sono entrata in un manicomio ed ho incontrato delle «povere matte»: una vecchietta che con grande dignità racconta i suoi 30 anni di segregazione, una ragazza che amaramente osserva che la sua unica malattia è la miseria e l’emarginazione, una donna di 72 anni che ancora oggi sta pagando per aver amato tanto tempo fa un uomo che non era il suo, una ventenne che supplica di farla uscire prima che la clausura la distrugga e una giovane donna che dice: «mi trovo qui perché sono stata violentata, non accetto il disprezzo della mia famiglia e sono disperatamente povera».

«Che la stragrande maggioranza delle donne internate nei manicomi vi entri perché ha osato in qualche modo ribellarsi al ruolo che questa società le impone, che insomma per finire in manicomio basta non voler fare la figlia sottomessa, la moglie servizievole, o la madre a tempo pieno, è una convinzione che ho maturato dopo aver preso parte ad una ricerca nei manicomi del Lazio in cui abbiamo intervistato 4.634 ricoverati di cui circa la metà donne e consultato le rispettive cartelle cliniche».

A dirmi queste cose è Franca, una compagna femminista, la quale sta portando a termine uno studio sulle motivazioni che conducono le italiane in manicomio.

Insieme ci siamo intrufolate per una settimana nei padiglioni del Santa Maria della Pietà, abbiamo parlato con decine di donne e prima incredula poi esterrefatta ho dovuto prendere atto che dietro le sbarre, le recinzioni del manicomio romano, vivono seppellite centinaia di donne sane di mente: magari turbate, avvilite, depresse dalla vita che hanno condotto, dalle oppressioni che hanno subito quando erano figlie, mogli e madri come tutte le altre, rinchiuse lì dentro per un gesto di ribellione o di sconforto.

In «Le donne e la pazzia» l’autrice, Phillis Chesler, dice chiaramente che molte donne del secolo XX vengono psichiatrizzate privatamente o ricoverate nei manicomi, ma non sono affatto pazze, piuttosto profondamente infelici, autolesioniste, economicamente disagiate, sessualmente frustrate da esperienze desolanti. Afferma anche che sono persone che lottano spesso contro il ruolo tradizionale della donna e che quando capiscono come sia impossibile vincere una simile battaglia, provano ancora una volta a fuggire, con un tentativo di suicidio o «diventando pazze», a quella sorta di semi esistenza che viene loro imposta. Ma nella nostra società – dice Phillis Chesler – sono poche, anzi pochissime le donne autenticamente pazze.

I motivi più frequenti che conducono una donna in manicomio – dice Franca – sono o il fatto che è diventata un peso per la famiglia perché non vuole o non può più svolgere le mansioni di casalinga, o il fatto che ha tentato di sottrarsi alla prima legge di questa società che è quella di negare la sessualità femminile e di imporre alle donne soggezione e passività nei confronti della cultura e delle esigenze maschili. In effetti tutte le donne che ho incontrato dentro i padiglioni del S. Maria della Pietà rispondono esattamente a questo quadro: c’è chi non poteva più rendersi utile come casalinga, chi ha osato andare contro le convenzioni amando per libertà e non per dovere e chi si è ribellata a una famiglia ferocemente autoritaria fuggendo da casa.

Incontrarle in quelle stanze, in quei cortiletti di terra battuta recintati con reti alte tre metri è angosciante; ma scoprire che per decine di anni, spesso per tutta la vita queste figure femminili soffrono e vegetano, rinchiuse in un manicomio, fa toccare con mano la profonda inimicizia, l’odio che questa società nutre nei confronti della donna.

Ed è stata proprio questa voglia di raccontare l’ingiustizia, la segregazione di cui sono vittime le donne negli istituti manicomiali, che ci ha fatto superare le difficoltà di questa inchiesta tenacemente ostacolata da molti dei primari dei padiglioni visitati. «Ogni padiglione è un feudo a sé stante – ci ha detto un’infermiera – e il primario che lo dirige ha in mano il destino e la vita stessa delle pazienti che vi si trovano». Al S. Maria della Pietà solo un terzo dei padiglioni è aperto. Eppure anche nei padiglioni chiusi ho conosciuto delle donne che malgrado la quantità spaventosa di psicofarmaci che ingeriscono, la segregazione prolungata, i maltrattamenti, sono in grado di parlare di se stesse con lucidità.

Sandra B. 69 anni

«Mi si chiuse il cancello alle spalle»

«È lei la signorina Sandra Biscardi ricoverata qui da trent’anni» dice l’infermiera e se ne va. È una vecchietta bianca e minuscola quella che ci indica. È a letto e ricama una tovaglia di lino. Ci guarda stupita, chi siete? Chiede con lo sguardo, poi fa un sorriso, posa il lavoro e ci tende la mano: Buon giorno, buon giorno – dice – accomodatevi, e indica le sedie.

«La mia storia è un calvario… Comunque va bene, parliamone». Ripone il lavoro, si ravviva i capelli, si concentra e poi dice: «Credo che sia meglio cominciare dall’inizio, da quando i miei genitori nel giro di pochi mesi morirono entrambi di tbc. Oggi ho 69 anni, ma allora ne avevo 8 ed ero di una famiglia borghese e agiata. Entrai in preventorio, poi in un collegio. Ebbi subito come dire… un arresto, mi chiusi in me stessa, il velo nero delle suore, l’atmosfera lugubre di quel posto mi impedirono di comunicare, di esprimermi. I miei unici momenti felici erano quelli che passavo sognando ad occhi aperti: – quando sarò grande uscirò di qui – pensavo – incontrerò l’amore, mi sposerò, la mattina mi sveglierò di buon’ora per stirare la camicia a mio marito e portargli la colazione a letto. Cosa volete – dice cambiando tono – quelli erano i sogni delle ragazze di allora. A 19 anni sono uscita dal collegio e sono andata ad abitare a casa di mia sorella che si era sposata e aveva una bambina. Ad accogliermi trovai solo un grande gelo. Mi impegnai con tutte le mi forze per rendermi utile, capivo che quello era l’unico modo per essere accettata. Finiti i lavori di casa ricamavo: era un lavoro che sapevo fare molto bene e che mi permetteva l’indipendenza economica. Anch’io sono una piccola rotella dell’ingranaggio che manda avanti questa famiglia – mi dicevo – le cose si sistemeranno. Invece non si sistemò un bel nulla. Mi sentivo sempre male, ma non volevo confessarlo, se avessi raccontato a mima sorella che anch’io ero tbc, che non ero più in grado di lavorare, certamente mi avrebbe detto di andar via. Ma un giorno non riuscii ad alzarmi, allora la chiamai e le confidai le mie paure; lei disse soltanto: «finalmente hai parlato!», e mi accompagnò dal dottore. Questi guardò le lastre e sentenziò: ci son delle infiltrazioni. Lessi negli occhi di mia sorella l’odio e il terrore del contagio. Finii in ospedale. Era disperata. Conciata così, mi dicevo, a chi servivo, dove vado. Un giorno mi misi ad urlare: «Mi butto dalla finestra, voglio morire!». Mi portarono alla neuro, ne uscii dopo tre mesi per tornare al S. Spirito, ma ero così debole, così malandata che decisero di farmi tra gli altri accertamenti, la puntura lombare. Quando mi svegliarono non muovevo più le gambe: la puntura lombare mi aveva paralizzata.

Adesso sono conciata peggio di prima – pensavo – nessuno mi vorrà più i miei sogni volati via per sempre, non ho un solo posto dove andare. Mi finsi un po’ svitata: il manicomio, vi sembrerà incredibile, ma era l’unica possibilità che avevo, non fu difficile ritornarvi. Mi si chiuse il cancello alle spalle.

Non sono mai riuscita a tacere di fronte alle violenze, alle ingiustizie fatte alle degenti. E allora mi dicevano che ero cattiva e in effetti in un manicomio ci dice la verità è la più cattiva.

Ma alla mia famiglia non ho mai dato fastidio, loro hanno i pregiudizi della borghesia di una volta e io ho accettato il loro rifiuto, la segregazione. Del resto che potevo pretendere: invalida come sono a che servivo, e poi… che vuoi che gliene interessi alla gente del gusto, delle capacità artistiche di una donna, e a me è restato solo questo. Adesso in questo padiglione si fanno le assemblee: ne abbiamo fatta una per esaminare la proposta di trasformarlo in un padiglione misto. Io sono intervenuta e ho detto: l’importante è che non si verifichi che le donne di questo padiglione si trovino loro malgrado a fare da cameriere agli uomini che verranno, perché allora stiamo meglio solo fra donne…

«Nell’indagine a cui ho partecipato – dice Franca – la maggior parte dei ricoveri di donne risultano essere fatti per motivi assistenziali, insomma se una donna non è più produttiva in casa, se non svolge il ruolo per cui è stata cresciuta ed educata, cessa di essere la regina della casa ed entra in manicomio».

«Mi chiedo perché è così rassegnata questa donna, perché non ha nessun risentimento nei confronti di chi le ha negato un’esistenza umana, come se li giustificasse… li capisse…». «Siamo sempre state portatrici di consenso noi donne – commenta Franca – abbiamo interiorizzato i ruoli che ci hanno imposto, fino a farli nostri. Per dirla in parole povere: se scopriamo che non ci va più di lavare i piatti, che quel lavoro ci disgusta, siamo le prime a pensare che stiamo impazzendo, anche perché gli altri fanno di tutto per convincerci di questo.

Angela P. 23 anni

«Neanche un bacio ci siamo potuti dare»

«Sono rientrata qui solo ieri sera e ancora ho negli occhi la gente, le cose belle e brutte che ho vissuto, insomma non mi sento ancora tagliata fuori».

Avrà 23 anni, si chiama Angela Pistacci e certamente proviene da una famiglia modesta.

«Adesso vi racconto di ieri sera… no, no racconto tutto dall’inizio… però è difficile, tante cose non me le ricordo… chissà che mi hanno fatto… tutte quelle pillole, anzi a me ne danno poche perché sono cardiopatica, però non sai mai cosa ti fanno… sai ad 11 anni mi hanno sedotto, è da quel momento che nella mia famiglia mi odiano, mia madre non mi può vedere e mio padre e i miei fratelli mi disprezzano. Io con quello che mi ha sedotta ci sono stata pure un po’ insieme, poi sono rimasta incinta e quando il bambino è nato me lo hanno subito tolto e io ho avuto una crisi gravissima, un lungo trauma. Mi dicono che sono caratteriale, sarà pure vero, ma molto seriamente, credimi, il mio unico vero problema è la famiglia da cui sono nata: io non accetto di essere sottomessa a loro, di fargli da schiava, ma perché mi trattano così?… di un lungo periodo non mi ricordo niente… so solo che è stato un continuo entrare ed uscire dal manicomio. Ogni volta mi riportavano dentro perché non volevo essere sottomessa, perché mi ribellavo. Adesso voglio raccontare quello che mi ricordo, quello che è successo ultimamente. Sette mesi fa, qui al manicomio, io frequentavo la scuola e ho conosciuto un ragazzo, anche lui ricoverato, e sai perché? Perché era stato lasciato da 4 donne una dopo l’altra ed era caduto in una grande depressione, aveva paura di non essere un uomo, di essere diverso dagli altri e quindi rifiutato. Ma con m è stata un’altra cosa. Ci siamo fidanzati. Non si può immaginare la pazienza che mi ci è voluta per ridargli la fiducia… gli ho voluto subito bene. Poi i genitori ci hanno ripreso. Ma è cominciata la solita storia, lo ripeto: per me è un problema famigliare, di incomprensione. Dovrei fare la schiava, la serva ai miei fratelli, sopportare le botte di mio padre, il disprezzo di mia madre. Anche quest’ultima volta non ce l’ho fatta, quando mi esasperano io non riesco a contenermi e sono esplosa e ho minacciato di uccidermi… Subito hanno detto che mi portavano alla neuro… per paura sono scappata a casa del mio ragazzo, ma il padre non voleva che ci stessi, ripeteva che non stava bene, che non era serio. Ho spiegato al mio fidanzato che dovevo andarmene anche da lì e lui ha detto che non mi lasciava andare via da sola, che sarebbe fuggito con me. E lo abbiamo fatto! Abbiamo preso un treno e siamo scesi a Perugia, è stato pure bello. Certo non avevamo una lira, c’era da morire di fame, dormivamo su un prato, ci facevamo caldo l’una con l’altro, mica avevamo niente da coprirci… però ci siamo amati nella libertà… una sera poi, eravamo sul nostro prato, mi son sentita male, avevo le allucinazioni, ti credo non mangiavo da tre giorni! Ma è stato brutto, il mio fidanzato aveva cambiato aspetto, lo vedevo come un mostro, mi sono messa a urlare terrorizzata, lui mi abbracciava, cercava di calmarmi, ma non c’era niente da fare… allora siamo andati alla polizia ferroviaria; hanno telefonato a mia madre e poi ci hanno condotto al manicomio di Perugia. Sono venuti i miei genitori a riprenderci, il medico ha detto che potevamo tornare a casa. Abbiamo preso tutti insieme il treno per Roma. Durante il viaggio si parlava con serenità, io mi sentivo tranquilla… che scema! Ho capito solo all’ultimo che ci stavano riaccompagnando qui. Ho vissuto dei momenti disperati, mi sentivo schiacciata dal dolore che provavo e dall’incomprensione dei miei… dovevo fare uno sforzo per non dare in escandescenze, ho cercato di trattenermi… neanche parlavo. Mio fratello una volta scesi dal treno aveva preso un bastone, era minaccioso. Il mio ragazzo non realizzava bene, mi chiedeva: «ma dove stiamo andando, questa non è la strada di casa» e io che avevo capito la situazione gli ho detto: «Se ti agiti è peggio, cerca di stare tranquillo: stiamo tornando al manicomio». Però quando siamo arrivati mi sono messa a piangere come una pazza, neanche un bacio ci siamo potuti dare, ci hanno diviso e basta. Adesso già lo so, fra due, tre giorni mi comincerà a mancare, soffrirò terribilmente… ma per me è finita… sono magra, anemica, sono uno straccio… è sicuro che finisco i miei giorni qui… ma chi vuoi che mi faccia uscire!

Però la verità è sempre la solita: se ero una donna ricca, se il mio ragazzo avesse avuto una buona posizione sociale, se non eravamo due poveracci, a quest’ora vivevamo in una casa nostra e non saremmo mai andati a morire di fame su un prato a Perugia per avere un momento di libertà»

Quotidiano Donna, n. sconosciuto, data sconosciuta (presumibilmente 1978)

Svendute ancora

Al Senato a toccare con mano l’ultimo mercato sulla vita delle donne, non è andata una giornalista, una politica, una esperta, ma una casalinga entrata di straforo

In gran fretta, dopo il voto favorevole della Camera, il senato esamina di nuovo la legge dell’aborto che ha respinto un anno fa. Una compagna è riuscita a farmi entrare nelle tribune degli invitati, e con emozione, per la prima volta in vita mia, assisterò al dibattito in aula.

L’ingresso è da una porta laterale: velluti, dorature, odore di cera. Impettito nello sparato bianco, un «commesso» recita con gentilezza formale: «Documenti… la borsa… per di qua, si accomodi…». Alle mie spalle, ma ad alta voce perché io lo senta bene, lancia un complimento pesante. Salgo le scale, entro. La seduta è appena incominciata.

Non parlare, non fumare, non commentare, non scrivere, non appoggiarti alla balaustra. Queste, le regole d’oro da rispettare. Occhi vigili mi obbligano a un contegnoso comportamento: Ricordati che sei in un luogo sacro, dove si esprime il potere del popolo sovrano. Impietrita, nello scomodissimo sedile fatico qualche minuto a rendermi conto della realtà, mentre l’aula si va riempiendo.

Piano piano emergono visi noti, facce viste tante volte alla televisione o sui giornali: tutti uomini a decidere delle nostre vite. Parla il socialista Campopiano: «Non solo i grandi Aristotele e Platone», … ma anche dottori della Chiesa come S. Agostino e S. Anselmo erano favorevoli all’aborto. Brusìo di disapprovazione dei banchi DC costui chi sta cercando di convincere? Ha la parola la senatrice Talassi Giorgi (PCI), finalmente una donna, una delle 2 sole presenti.

Questa legge, dice, non sarebbe nata se non esistesse un «grande movimento femminile unitario». Essa è stata migliorata (sic) alla Camera, anche se, per quanto riguarda l’art. 12 (aborto) delle minorenni) sarebbe auspicabile un miglior rapporto fra genitori e figli…

Contro le «femministe radical-borghesi» tuona il senatore DC Trifogli. Contro la barbarie di chi vorrebbe salvare Moro dalla prigione delle BR, e vuole invece uccidere il nascituro nella prigione dell’utero, si scaglia il. Missino di turno. Ma la maggioranza c’è già, lo spettro che si paventa è quello del referendum che nessuno vuole e che sconvolgerebbe le complicate alchimie politiche degli ultimi mesi.

Ecco alla fine l’intervento politicamente più importante e più atteso: è quello di un cattolico eletto nelle liste del PCI, il professor Gozzini, fiorentino, di professione teologo. La sua posizione dovrebbe fornire un’indicazione per gli incerti. Gozzini elogia gli emendamenti democristiani. Esprime la sua grande stima per il dott. Casini, noto magistrato sessuofobo e ispiratore della legge d’iniziativa popolare presentata al Senato dal famigerato movimento per la vita. Dichiara che, se fosse medico, non esiterebbe a fare obiezione di coscienza. Sostiene che le minorenni rimangono incinte, e desiderano abortire (sic!) per un’inconscia volontà di autodistruzione. Con queste folli argomentazioni si dichiara favorevole alla legge.

Una cosa ormai appare chiara, tutto è già deciso altrove, l’accordo è fatto, il governo del 90 per cento è saldamente unito.

Subiremo ancora l’umiliazione delle lunghe trafile, il dolore del ferro da calza e del prezzemolo, l’angoscia di una maternità non voluta. Il Parlamento, ancora una volta, ci ha consegnate alle mammane.

Immagine 1: Dalla prima pagina di Quotidiano Donna, n. sconosciuto, data sconosciuta

La cronaca che non abbiamo potuto fare

È stato il muro spesso dell’omertà di famiglia e lo strapotere patriarcale a impedire alla stessa vittima di una situazione ingiusta e spietata, uguale a tante altre situazioni di donne, di raccontare la sua storia a Quotidiano Donna e di farne il nostro primo pezzo di cronaca. Eppure, tramite un messaggio recapitato a mano, era stata proprio lei, la vittima, la perseguitata a bussare alla porta ancora fresca di vernice della redazione per chiederci di entrare in contatto, di stabilire un filo di solidarietà, di trovare insieme il modo di uscire dal tunnel della sua «pazzia». (seg. pag. 4)

Vogliamo l’impossibile e ci proviamo

Quando abbiamo detto «E adesso facciamo un giornale» tutto potevamo immaginare escluso che dopo due mesi il giornale sarebbe stato in edicola. Invece l’entusiasmo e la volontà di tante donne, in un tempo appena sufficiente per pensarlo, ha reso possibile l’uscita del giornale. Non è ancora così bello, ma è nato. E allora vale la pena di raccontare come. Può essere un modo per conoscerci fra di noi che questo giornale leggeremo e faremo, senza più dire: tu sei la giornalista pensi, scrivi, imponi le tue idee, io sono la lettrice, leggo, assimilo e passivamente subisco senza poterti rispondere. Questa volta il giornale lo facciamo tutte insieme. (seg. pag. 8)

Aborto

Le ultime leggi hanno radici antiche

1556 Editto emanato da Enrico II di Valois. L’editto resta valido fino alla rivoluzione francese (1789). Veniva letto dai pulpiti affinché tutte le donne ne fossero a conoscenza. «Ogni donna che verrà trovata colpevole di aver celato, nascosto, occultato sia la sua gravidanza che il suo parto, senza aver testimonianze sufficienti della vita o morte di suo figlio al momento dell’uscita dal suo ventre e in seguito si scopra che il bambino è stato privato sia del santo sacramento del battesimo che di sepoltura pubblica e secondo il costume, questa donna deve essere considerata colpevole di omicidio verso suo figlio. E in espiazione deve essere punita con l’estremo supplizio della morte con tale rigore quale meriterà il caso specifico: affinché sia d’esempio a tutti e che dopo di questo la pena sia rigorosamente stabilita per tutti».

Fino a tutto il 1700 l’aborto veniva punito come infanticidio, cioè con la morte, in alcuni luoghi addirittura con il rogo. Le leggi più antiche, nel medioevo, punivano meno duramente l’aborto se si trattava di un feto ancora privo di anima. In alcuni luoghi si considerava che l’anima del maschio ci fosse dopo 40 giorni mentre per quella della donna ci volevano dagli ottanta ai novanta giorni. Ma era già un passo avanti perché per lungo tempo si era pensato che la donna l’anima non ce l’avesse proprio! O forse succede anche adesso?

13 febbraio 1978. Disegno di legge proposto dal movimento per la vita: Un servizio reso del popolo al popolo. «L’aborto non è affatto un diritto, anzi è un male contro cui occorre combattere con impegno…».

Art. 20 «La donna che si cagiona o si fa cagionare l’aborto è punita con la reclusione da uno a quattro anni. La stessa pena si applica a chiunque cagioni l’aborto…». Alla donna obbediente che non abortisce è riservata «una residenza per gestanti» dove nascondere la propria colpa. (art. 5)

Non si preoccupino le donne che avranno figli con malformazioni perché lo stato se ne farà carico istituendo «…cattedre universitarie…scuole di specializzazione, ecc.». (art. 2)

Il disegno di legge, sostenuto da più di un milione di firme carpite sovente con mistificazione, al Senato è stato abbinato alla discussione sull’aborto.

La parte delle pene è stata assorbita nella legge sull’aborto, mentre la seconda, stralciata, potrà essere ripresentata. A quando il primo rogo?

Caro Carmelo Bene noi ti denunciamo

Da tre settimane SADE di Carmelo Bene è in scena al Teatro Tenda di Roma.

Per chi ha avuto la fortuna di assistere alla «performance» del Bene, avrà notato che l’«attrice» è stata usata come porta, cesso, roulette, sedia, ecc., cioè come il suo corpo nudo è stato sacrificato sull’altare dell’arte interpretativa del «sommo».

In questo momento di disoccupazione nel nostro settore, è più facile trovare chi, per campare, accetta di interpretare «ruoli» simili, pensiamo che questa sia la sola molla che spinga un’attrice a farlo. Noi da un anno, da quando cioè si è formato il nostro collettivo, ci stiamo battendo perché l’immagine dell’attrice cambi. Per affermare una figura d’attrice che lavori e si comporti da donna non avulsa dalla realtà che la circonda.

Dichiariamo che dopo aver visto il Sade ci riteniamo offese e denunciamo Carmelo Bene per come è stata usata l’attrice in questo spettacolo, modo che lede la nostra dignità di donne, che cercano di portare avanti la battaglia durissima per il cambiamento di una situazione in cui l’attrice quasi sempre è oggetto rassegnato e ottuso di valori e decisioni di un potere autoritario e cosiddetto culturale.

Collettivo attrici SAI

Quotidiano Donna, n. sconosciuto, 15 maggio 1981, p. 18-19

Con il problema dell’uomo alle spalle

Conversando con Carla Lonzi, autrice di «Vai pure»

Una donna e un uomo analizzano a fondo il loro lungo rapporto: la conclusione naturale è il «Vai pure» di lei.

In molte lo abbiamo detto, anche se in modi diversi: l’incognita è il dopo… Tutte le domande che ci siamo poste in questa lunga conversazione-intervista con Carla Lonzi, scrittrice e teorica del femminismo, e che portano al nodo centrale che è il rapporto uomo-donna ripercorrendo la storia e i contenuti profondi di dieci anni di femminismo.

Chi è

Un sottile libretto verde ha aperto, a molte di noi, sugli inizi degli anni ’70, una strada che ci avrebbe portate lontano. Già leggere quel libretto dal titolo dissacrante «Sputiamo su Hegel» comportava coraggio: costringeva a mettere in discussione certezze e riferimenti creduti, sino ad allora, definitivi. Scriverlo poi… richiedeva ancor più coraggio e mostrava una definitiva scelta di vita che Carla Lonzi aveva fatto in quegli anni lasciando la sua professione di critica d’arte per dedicarsi al femminismo e al suo gruppo «Rivolta femminile». Un fil continuo che l’ha portata da «Sputiamo su Hegel» (’70) a «La donna clitoridea e la donna vaginale» 9’71) al «Taci, anzi parla» (’78). Il «Taci» è un diario di autocoscienza quotidiana dal ’72 al ’76. Non tanto un’operazione di memoria, ma «Come se – dice Carla – il passato stesso irrompesse nel presente richiamato dalle sue analogie con questo». Nel «Taci» entrano tutti i temi che diverranno quelli del movimento: l’autocoscienza, i rapporti di gruppo, la sessualità e l’omosessualità, la sorellanza… ma mentre qui la voce che li filtra è una sola, quella di Carla, nel suo ultimo libro il «Vai pure» (’80) le parti in causa, le «voci», sono due. Carla e il suo compagno, lo scultore Pietro Consagra, analizzano fino in fondo il loro lungo rapporto, diciassette anni, ognuno contrapponendo il proprio differente modo d’essere e di porsi verso l’altro/a. In un lungo dialogo vengono coinvolti l’immaginario, l’identità, i sogni, gli scopi… «Vai pure» dice Carla alla fine.

Ma… e dopo? Le chiediamo. «Non voglio sapere come finirò perché non so cos’è la vita matura. Se è il finire in una coppia che si sostiene e si sclerotizza o se, arrivati a un certo punto, non è più congeniale per me riprendere il cammino da sola per un’esplorazione finale della mia vita…».

Interrogativi, concordanze, dubbi, curiosità e voglia di discutere. Queste le sensazioni che l’ultimo libro di Carla Lonzi «Vai pure» ha suscitato in molte di noi della redazione. «Vai pure» l’abbiamo detto in tante e in modi diversi, ma il «dopo» come si vive, cosa ti riserva?

Così ho chiamato Carla e le ho chiesto un’intervista. Con me è venuta Bianca, una mia amica molto presa dal libro, molto coinvolta sul piano emozionale. È venuta, ha detto, per ascoltare, ma poi, nella casa di Carla, non ha mantenuto la sua promessa. Le parti così si sono tutte mischiate. L’intervistata, sulle prime, è stata proprio Bianca, e Carla le poneva le domande, poi, via via, si è dipanata una lunga conversazione a tre. A me non è restato che il compito di una cronaca fedele. Come dicevo, ha cominciato Bianca…

Immagine 1: Carla Lonzi nella sua casa di Roma, da Quotidiano donna, 15 maggio 1981

Bianca. E dopo, Carla, che succede dopo? Leggere «Vai pure» è stato per me come veder realizzata una serie di problemi vissuti fino in fondo al punto di ritrovarvi dialoghi che erano stati i miei in condizioni assolutamente identiche. Tant’è che questo libro me lo sono letto tutto in una volta e più leggevo più stavo male, e più stavo male e più volevo leggere, fino alle ultime pagine. Io personalmente adesso mi trovo nel dopo e non è un dopo felice, non è affatto felice. Tant’è che mi chiedo, ma come, ho fatto dieci anni di lotte, per avere questo – e non poteva che essere questo l’approdo – e dunque perché l’infelicità? Io credo di non essere stata mai tanto infelice…

Carla. Perché?

Bianca. Tutte quelle cose che ho rifiutato o negato perché sicuramente non erano giuste, in realtà mi mancano.

Carla. Per esempio?

Bianca. La figura del compagno cui ho detto «Vai pure» … Allora quando gliel’ho detto credevo di fare un passo avanti e invece… In realtà sono ferma a quella storia, una storia lunga dieci anni e che ormai è finita da due anni. Per questo il tuo libro mi ha proprio stimolata a pensare al dopo…

Carla. Il mio «Vai pure» era una rottura in un momento quasi tranquillo, con molti lati smaltiti: una cosa quasi pattuita in cui le due posizioni si fronteggiano e ognuno sente che non può cedere la sua parte e capisce che anche l’altro, in fondo, non può cedere. Per me era proprio una rottura desiderata, avevo bisogno di togliermi questo logoramento dalla vita, questo dover tirare l’altro sulle mie posizioni e di sentirmi tirata sulle sue. Così… Pietro era lì, io ero qui: quando ho detto «Vai pure», ho spento il registratore, sono andata alla porta, l’ho salutato. Lui ha aperto l’ascensore e se n’è andato. Non c’è stata una parola di più dopo quella del dialogo e io mi sono trovata sola con la sensazione di stare… bene.

Quotidiano donna. Ti sentivi libera…

Carla.  Mi sentivo carica di energie. Intanto è venuta l’estate e ho fatto una «mia» estate. Ero veramente felice. Ritrovavo delle sensazioni di quando ero ragazza. Però, mentre da ragazza avevo l’aspettativa del rapporto con l’uomo, il che mi teneva in quell’ottica del vivere, adesso avevo una relazione alle spalle vissuta con tutto l’impegno possibile per me. Avevo alle spalle questa vicenda che si era chiusa in una specie di bilancio concordato, anche se era, mettiamo, in un certo senso, un fallimento, però ero stato un bilancio aperto. Quindi avevo alle spalle il problema dell’uomo…

Quotidiano donna. Non c’era la sensazione della mancanza?

Carla. In quel momento non l’ho avuta. Sentivo che era una cosa vissuta; con quanta necessità l’avessi vissuta, però in quel momento ero chiusa.

Quotidiano donna. Consumata…

Carla. Come quando avendo un figlio grande e non sei più legata a questa creatura, ritorni una persona autonoma, però non una non-madre, sei una madre che ha vissuto la sua maternità. Io quinti mi sentivo soddisfatta, se così si può dire, perché quello che potevo dare e ottenere per le mie capacità e per le mie possibilità l’avevo raggiunto.

«Scritti di Rivolta femminile», che pubblica i libri di Carla Lonzi, è la prima casa editrice femminista in Italia e in Europa. Oggi è composta da nove donne del gruppo «Rivolta femminile».

I libri pubblicati sono in vendita nelle principali librerie ma possono essere richiesti direttamente, senza spese di spedizione, a Scritti di Rivolta femminile P.zza Baracca 8, 20123 Milano tel. 02/783665.

Il pagamento può essere effettuato per contrassegno, o assegno allegato o per versamento sul c.c.p. n. 12165205.

Quotidiano donna. Eri paga…

Carla. Ero in pari su questo punto, capisci?

Alla fine dell’estate mi ha telefonato… mi ricordo che dentro di me pensavo «Speriamo che non si faccia vivo» perché capivo che sarebbe diventato un problema rifiutare di nuovo una possibilità di tentare. Invece si è rifatto vivo: molto cauto lui, cautissima io e così ci siamo incontrati. E la cosa curiosa è che non abbiamo cominciato a parlare come di solito avveniva, perché quegli argomenti detti al registratore erano diventati una specie di punto fermo…

Quotidiano donna. Non c’era più la speranza di avvicinare l’altro alle proprie posizioni…

Carla. Sì, si era visto che ognuno era deciso sulle sue, indipendentemente dall’affetto, dal rapporto umano, da… tutti i coinvolgimenti possibili. Che cosa sta succedendo adesso, non lo so.

Quotidiano donna. Ma non assomiglia a come era prima…

Carla. In che senso dici «non assomiglia»?

Quotidiano donna. Non c’è più lo stesso tipo di emotività, di rabbia o forse a volte di aggressività. Comunque non ci sono più le stesse motivazioni.

Carla. Sì, qualcosa è avvenuto: non siamo più due antagonisti… Tutto l’antagonismo a me è finito con questo libro… Cosa c’è allora? Non lo so ancora, però vivo con una certa calma che mi deriva dal fatto che ho sperimentato che posso essere sola. Non dico che sia la stessa cosa che vivere con lui, però non è così…

Quotidiano donna. Sconvolgente…

Carla. Non lo è. Che se capita, so che ha anche i suoi lati positivi e so che mi carica di nuove energie.

Bianca. È come se due identità si fossero definite fino in fondo e quindi fosse venuto meno il bisogno di fronteggiarsi. Questo mi è sembrato il punto cui bisogna arrivare. La vera libertà non è quella di stare soli, ma che due identità non si mettano in discussione.

Carla. …e proprio trovare gli elementi dinamici del rapporto che non siano quelli antagonistici, che sono, in fondo, un po’ scontati. È lì che forse qualcosa sta richiamando la mia attenzione ma che ancora io non riesco a definire ma neppure lui perché lo vedo attento e si domanda chi e cosa siamo adesso in quest’altra fase.

Quotidiano donna. Quali sono le nuove molle?

Carla. Ecco, succede che in una relazione, di qualsiasi genere, sia con un’amica, col figlio o con i genitori a un certo punto ti sembra di saperla fino in fondo. Poi esprimi questo momento, a cui sei arrivata con l’altro e dici «Sì, la relazione è questo». Improvvisamente senti che tutto slitta leggermente e si presenta una situazione che ancora non afferri ma che è un altro aspetto della relazione, nato proprio da quel parlare insieme… che l’ha fatta come «ruotare» presentandone un altro lato. Capisci? Insomma per me fa parte della relazione tutto, rottura compresa. Per me una rottura non è mai definitiva con nessuno, diventa definitiva a posteriori. Non ci sono spinte che rimettono le due persone vicino, nessuna delle due si sente di fare il primo passo, di riprendere i rapporti di rimettersi in contatto.

Quotidiano donna. Forse è proprio quando questa «rotazione» non c’è che non si ristabilisce il dialogo…

Carla. Però se succede, allora qualcosa c’è e di nuovo: c’è da riscoprire qualche altra cosa. Una relazione ha tutte le possibilità di novità solo che tu le colga e mi sembra molto primitivo pensare che la novità è solo…

Quotidiano donna. …in un nuovo rapporto. Come se venissero messe in luce le diverse angolazioni delle persone.

Immagine 2: Ritratto di Carla Lonzi da Quotidiano donna, 15 maggio 1981

Carla. Sì, il nuovo rapporto ha i suoi aspetti di novità, però sono sempre i primi passi… mentre a me interessa quando le cose sono molto avanti. Quello che succede quando sei in mezzo all’oceano, non quando sei a dieci metri da riva perché lì fai sempre la spiritosa, lo sai. E infatti in letteratura non c’è generalmente cosa succede dopo dieci, quindici, vent’anni di relazione… È una complessità tale quella dell’intreccio delle relazione che, in fondo, non è mai stata molto espressa, né indagata, anche perché il campo delle relazioni non è esattamente il campo in cui l’uomo si è addentrato. È un campo grezzo e molto sconosciuto per lui.

Bianca. Penso anch’io che il difficile viene dopo, «in mezzo all’oceano». Infatti, quando il rapporto diventa complicato, ben raramente un uomo ci si impegna. Forse preferisce davvero cambiare perché il rapporto non è il suo campo, è vero.

Carla. Darebbe troppa precarietà a una vita che si gioca da un’altra parte e l’uomo ha la necessità di grande sicurezza e stabilità affettive; dunque proprio del ruolo ha bisogno, per poter rischiare altrove. Inoltre io penso che non ha nessun interesse a capire chi è la donna che gli sta vicino: basta che combini la sua apparenza con le sue (di lui) esigenze d’immagine.

Bianca. Un rischio troppo grosso per lui anche perché si tratterebbe di capire a fondo chi gli sta davanti e non usarla come un servizio familiare: che, poi, è quel che di solito accade. Anzi, se non sei una casalinga, ma una donna con proposte intellettuali diventi un servizio familiare quanto mai qualificante.

Carla. Io credo che vi sono difficoltà proprio obiettive. Cioè una società che sviluppasse la relazione dovrebbe cambiare tutto… e il nodo, dove la cosa si decide, è proprio il rapporto con la donna. Perché fino adesso il rapporto uomo-donna non è stato un rapporto di coscienza. E, quando è cominciato ad esserlo, è diventato quell’eccezione che però non si è sviluppata: è rimasta un’avvisaglia. Se cambia quello è chiaro che l’uomo va in crisi.

Quotidiano donna. …e mette in crisi tutta la costruzione di una società che non è più rispondente alla sua esigenza.

Carla. …uno sconvolgimento che implicherebbe la sua identità e tutto il mondo che lui si è creato. In fondo il femminismo dov’è che si sente sconfitto? Per il fatto che questo rivelarsi dell’essere femminile non viene preso in considerazione: comunque tu, come essere umano che si è rivelato, provochi soprattutto reazioni di chiusura.

Bianca. Quanto all’inizio ti dicevo «Mi sento infelice» non era per farti il mio caso personale perché sarebbe poco significativo… è proprio un’infelicità dovuta a questa consapevolezza: una battaglia che non serve perché non interessa, te la paghi tutta da sola e sei punto da capo. Allora viene anche meno voglia di battersi. Quando cominci a pensare che tutto quello che fai, e così faticoso, non ti porta…

Quotidiano donna. A niente, rinunci subito.

Bianca. Intravvedo, in questo, una crisi reale del femminismo. Perché siamo sempre di meno in tante occasioni quando servirebbe essere tutte… e poi si vede sempre di più il fascino dirompente che hanno le istituzioni per le donne.

Quotidiano donna. Le istituzioni o comunque tutte le attività in cui ci sono gli uomini. Perché il modo per affermarsi socialmente è per molte solo in rapporto a quello e inoltre, dall’altra parte, non c’è mai stato interesse a confrontarsi col femminismo.

Carla. Anzi. C’è un assorbire quel tanto che fa andare avanti certi scatti di coscienza, certe comprensioni che prima erano paralizzate. Ma non viene mai tenuta presente né chiamata in causa la controparte femminile… viene assorbita. Noi siamo le femministe. Dall’altra parte c’è tutta gente con nome e cognome. E questo è anche un errore del femminismo, che ne ha fatto di gravi, proprio molto gravi, su cui riflettere, come movimento. Quindi, se siamo diventate solo materiale per ricavarne dei dati e delle indicazioni, e non persone distinte per il mondo maschile, per la cultura, per la società, è chiaro che la tendenza delle donne ritorna quella di andare a portare là le proprie prestazioni…

Quotidiano donna. Là un’identità, in qualche modo, c’è…

Bianca. Anche se del tutto subalterna.

Quotidiano donna. È molto più facile la subalternità: è una strada che ha dei prezzi, che si pagano e cari, ma ha anche meno incognite e richiede meno coraggio…

Carla. In fondo l’attrazione che subisce la donna nei confronti dell’uomo è l’attrazione per un’identità. Ora la donna, con il femminismo, ha capito e rivelato che desiderava conquistare un’identità che non fosse più quella di riflesso data dall’uomo… Però, poi, la deve anche manifestare. «Ce l’ho e l’adopero». Invece questo «Ce l’ho ma non l’adopero» non convince nessuno che l’identità ci sia. Non puoi contentarti più di tenerla lì ferma, perché l’identità è come la coscienza: ha le sue spinte. Cerca altre identità, gode dell’intreccio con altre identità…

Bianca. E mentre un uomo è agevolato nell’esprimere la propria identità e quindi si adopera tutto per esternarla e affermarla, la donna è così penalizzata nel manifestare la propria che, il più delle volte, si autocensura.

Carla. Tutti i miei rapporti li cerco di costruire come banco di prova della mia autonomia. Non avrei neanche potuto fare il «Taci anzi parla» dove parlo di me, di amiche, amici, del partner, di tante relazioni in un modo che ti si spacca la vita, se questa non fosse già stata impostata in tal senso. E infatti la mia esperienza è stata accettata ed è servita ad approfondire ulteriormente i rapporti. Quelli che non hanno retto è segno che erano già in crisi. Quando l’ho capito, era anche giusto che non ci consumassi più sopra delle energie perché non avevamo più lo stesso scopo. Insomma è chiaro che qualcosa va rivoluzionato…

Quotidiano donna. E quanto al mondo degli uomini…

Carla. È importante uscire dal ruolo di aspirante ai loro valori, ma uscire davvero; non come ha fatto tanto pseudo-femminismo che poi, con l’emancipazione, ha fatto capire che desiderava quelle realizzazioni. Allora l’uomo lo sa, non è la prima volta che succede nella storia. Mentre invece se hai conquistato un tuo valore da contrapporre a quel mondo, un valore che, per conquistartelo, hai pagato… allora. Per me non è più problema della mia vita, non ha più richiamo, non è più la Sirena dell’«Oggi no, ma domani sì». Ho il desiderio di confrontare, come nel «Vai pure», ma non sono né un’energumena né una persona che chiude e taglia, o che non vuole rapporti, o che è separatista o non separatista, o quello o l’altro. No. Però, da questo mio centro, non mi muove più nessuno. È una condizione che, finalmente, mi sembra naturale, una cosa da fare e, certo, adesso è fatta.

A cura di Grazia Centola

Crisi del femminismo, s. d.

  • Tutto quello che è politicizzabile lo assumono i partiti (aborto ecc.)
  • Il resto dovrebbe entrare come elemento di crisi nella cultura invece viene filtrato e assorbito quel tanto che approva la cultura stessa e la fa sentire più femminile da un lato dall’altro confeziona prodotti consumistici anche dalle donne – gli uomini cretini si estendono su problematiche o emozioni più femminili tenendo saldo il potere e il sistema.

Le donne temono l’apartheid che è il ricatto tipico della cultura maschile. Io provengo dalla cultura, non ne ò nostalgia. È un mondo che conosco, da cui ò attinto conoscenze, ma da cui mi sono staccata perché per una donna significa rinunciare a se stessa. Lì non ti esprimi, ti contorci in contraddizioni che non ànno fine. Anche Virg. Woolf temeva che nei suoi scritti gli amici più intimi riconoscessero quella “stridula nota femminile” che l’avrebbe indicata come femminista, cioè una che non sta al gioco.

Le donne nella cultura sono molto ostili alle femministe che le mettono in difficoltà con le loro analisi. Una collega, una critica d’arte, mi à chiesto Vai pure per recensirlo, poi mi à detto che il libro era una “cagata”. Scrivilo, le ò detto, ma se ne guarda bene. Mi à voluto comunicare la sua ostilità.

In privato l’uomo à alti e bassi, ma non cede. Un uomo rivoluzionario non esiste. Come dice Celine nel genio c’è una buona dose di drittaggine. Figuriamoci in chi genio non è!

Il campo dove la donna può muoversi è il privato e l’espressione. Un rischio tremendo sui due fronti: il rapporto a due è costruito su un individuo e un sosia, non su due individui. Questo è inammissibile. Esprimersi significa essere così forte da poter tirare giù la maschera sociale e culturale. Non è facile. C’è una cultura terroristica con miti millenari.

Il femminismo, entrare dentro se stessi, fa incontrare un certo tipo di sofferenza. Ma ognuno sceglie la sofferenza che gli è congeniale. Io ò scelto questa e non ne faccio mistero. Quella precedente, della casalinga o della professionista mi dà la nausea.

Quotidiano Donna, n. 33, 1979, p. 12-13

Altro che riflusso! Il tifone femminista soffia da secoli!

I collettivi si raccontano, parla il collettivo di Rivolta Femminile

Fermiamoci un momento e proviamo a costruire insieme la nostra memoria collettiva. Quanti dei materiali elaborati dai collettivi femministi sono andati perduti per sempre? Troppo spesso noi siamo le prime a non darvi il giusto peso. Così ci sembra particolarmente importante ripercorrere la storia e i contenuti dei più attivi tra i collettivi femministi, un modo per andare oltre.

È il bisogno dell’uomo lo scoglio su cui ci infrangiamo?

Ritratto di Carla (a sinistra) e Marta Lonzi (a destra).
da Quotidiano Donna, n. 33, 1979, p. 12

Dalla fine del ’77 è stato accusato di ideologia il femminismo che si fonda proprio sull’assenza di ideologia, le cui difficoltà a esistere e a andare avanti sono proprio in relazione con le conseguenze del rifiuto ideologico. Naturalmente c’è una parte di femminismo più ideologico, ma la parte viva del femminismo non lo è per il semplice fatto che un femminismo agganciato all’ideologia è insulso in partenza, non dico niente di nuovo rispetto a una cultura maschile di cui essa è prerogativa. L’assurdo è che siano proprio delle donne a muovere questa accusa al femminismo sulla spinta della caccia agli «ismi» in atto nel mondo maschile, mentre non si accorgono quanta ideologia venga contrabbandata sotto l’etichetta «fine delle ideologie» che tanto le preoccupa di restare indietro. La novità femminista è proprio nel tirare fuori un’opposizione all’ideologia che non sia uno degli eterni corsi e ricorsi che avvengono al suo interno, ma manifesti l’esigenza di una verità personale che ha la sua realizzazione nei rapporti: questo è il contenuto dei gruppi di autocoscienza.

Il femminismo naufraga se non produce una verità nuova, e questa verità non può essere che di questo tipo. Chi ha cominciato a metterla in atto ha capito su di sé quale è il costo proprio nell’effetto che provoca alla radice dei rapporti. La scomparsa di ogni mediazione di concetti astratti e punti di riferimento nelle idee fa sì che il confronto – con i suoi elementi di critica, di giudizio – non verta più su una produzione intellettuale distaccata, ma finisce per coinvolgere tutta l’esistenza delle persone in causa, il loro equilibrio affettivo e psicologico. Ci vuole proprio l’incoscienza di chi non sa per aggredire con sufficienza e disprezzo chi ha compiuto l’unico gesto possibile oggi a una donna, gesto non garantito da alcuna riuscita nella storia, al contrario da secoli sembrando destinato a fallire, ma facente parte del nostro percorso e a cui ci ricolleghiamo per dargli uno sbocco. Ci vuole l’incoscienza di chi studia l’umanità secondo criteri maschili per affermare che il femminismo deriva dal ’68 o dalla Rivoluzione francese o chissà da dove. Il femminismo è presente in ogni documento lasciato da una donna che non avesse di mira l’inserimento nella cultura e nella società maschili, che non parlasse da un’identità gradita all’uomo per riconfermarlo. È presente negli occhi di chi è in grado di leggere quel documento e non lo trascura perché non rientra nei messaggi che l’uomo capisce.

L’autocoscienza non può essere mai teorica perché i rapporti non sono teorici: da quando inizia dà luogo a un processo di sconvolgimento di tutti i legami che circondano una persona. E qui bisogna dare un addio alla vecchia concezione politica che vuole impegnare l’individuo su sentimenti generali, cioè al di là dei suoi propri sentimenti – amore per l’Umanità, il Proletariato, il Terzo mondo, le Donne, ecc. – per rendersi conto che il femminismo inizia un tipo di concezione politica basata sul tempo concreto e sullo spazio concreto: i rapporti di ogni singolo.

L’autocoscienza è uno strumento di modificazione della realtà umana relativa all’individuo e va usato per lo scopo per cui è sorto: certo non può dare risultati a chi si aspetta che sia inserito nelle strutture di partito e nelle strutture politiche correnti. Questa è la vera fine dell’ideologia e di una politica collegata all’ideologia. Infatti la difficoltà per noi non consiste nel diffondere le belle idee del femminismo o quelle che scaturiscono dall’autocoscienza, altrimenti si ricreerebbe il meccanismo maschile di idee nate da un’esperienza e che diventano puro polo di attrazione, ma nel fare in proprio l’esperienza. Così il femminismo si trova da un lato a premunirsi continuamente perché l’autocoscienza non divenga un bagaglio di tematiche avvincenti e dall’altro a cercare di stabilire contatti solo sul piano dell’autocoscienza. Questo ha portato a forme di isolamento vari gruppi in attesa di condizioni che permettessero la realizzazione di tali rapporti in scambi allargati tra femministe.

La presa di coscienza, mettendo i rapporti fuori dalla salvaguardia dell’accordo implicito e esplicito dei ruoli, pone la donna di fronte a scoperte che, intuite in linea generale, si presentano cariche di particolari nella vita di ognuna che scavi al di sotto delle solidarietà apparenti. Pone di fronte al fatto che l’uomo ha mille risorse per sfuggire a se stesso – ideologia e funzione sociale – cosicché può andare in crisi giusto quel tanto che gli serve a evolversi, a sentirsi ricettivo. Società e cultura lo assecondano nel suo diritto a privilegi e rimozioni ataviche, la sua persona è unica, e se si misura con la donna lo fa in quanto lei rappresenta un suo punto fermo nella stima di sé. Spostato il suo equilibrio altrove, finisce il pungolo dell’autocoscienza e comincia un argomento a vuoto. Certo l’uomo non nega in astratto la validità di una nostra presa di coscienza, semplicemente la considera inattuabile, eccessiva: esistono vie meno pericolose, più comprensive delle sue necessità.

Ci siamo così rese conto che solo l’ideologia ha potere contrattuale perché vincolante e terroristica – avendo confuso ideologia e femminismo all’inizio degli anni ’70 gli uomini a cui era arrivato il messaggio si erano messi, per così dire, sugli attenti – mentre l’autocoscienza è facoltativa, prendere in considerazione la nostra esistenza è facoltativo, un gesto di buona volontà supplementare su cui sarebbe stolto fare affidamento. «Che non diventi regola, è solo una concessione per momenti di emergenza».

Per la donna fallire la vita di relazione è fallire la vita, per l’uomo il problema è non perdere la donna come appoggio, e che lei sia credibile nel gioco delle parti è la sua più segreta aspirazione. L’uomo è troppo impegnato nei rischi della competizione sociale per aggiungervi quelli dei rapporti che sono i più globali. A lui i rapporti servono da piattaforma di sicurezza per tutte le imprese a cui si sente chiamato. Nella cultura del Monologo, che ha tenuto l’uomo in compagnia visto che «gli altri» venivano dati per scontati e tali si ritenevano, ormai si ripetono sempre le stesse cose; la sensazione di novità scaturisce invece dal mondo femminista, è lì che avvengono esplorazioni e aperture che non sappiano di culturale. Però queste esplorazioni e queste aperture sono talmente risicate sui margini del sopportabile che spesso non lasciano energie sufficienti per essere espresse al di fuori, e, se lo sono, lo sono più nei limiti di indicazioni che come risultato probante in se stesso. Ma tanto basta perché il femminismo venga depredato come ovvia riserva di aggiornamenti da chi non sa più a che santo votarsi. Cioè l’uomo, questo essere chiuso in un noblesse oblige di casta e che si mangerebbe la coda se non si mangiasse – oggi più sfacciatamente di sempre – la donna.

L’uomo ha questa scappatoia nell’ideologia e nel destino sociale che gli consente un andirivieni da se stesso a cui la donna, una volta arrivata sul piano della coscienza, non può più prestarsi e che logora proprio il suo bisogno di continuità nel presente, l’autocoscienza tiene nel presente, quindi, a prescindere dai contenuti, chi pratica l’una e chi pratica l’altra sono due entità che non si incontrano. Esemplificando: la libertà vissuta come ideologia e la libertà vissuta in riferimento a sé finiscono per non avere niente in comune. Per questo motivo l’emancipazione può apparire alla donna come un mezzo per ristabilire un’unità di percorso con l’uomo, per questo motivo il rifiuto dell’emancipazione come metodo di rapporto – e non come strumento di sopravvivenza – è un passo carico di conseguenze perché mette a nudo il fatto che l’uomo e la donna non parlano la stessa lingua, non perseguono gli stessi scopi. Senza la nostra adesione si scombina l’equilibrio dell’altro, ma non fino al punto che l’uomo ritrovi se stesso – per fare questo dovrebbe rivoluzionare la sua concezione sociale per la quale si è costituito come è – cosicché rimane un individuo a metà come è sempre stato – ma la sua idea è di essere universale, comprendente cioè anche la nostra sostanza – costringendo la donna a fare il capro espiatorio dei suoi contrasti irrisolvibili, oppure a restare sola.

Ecco dove il femminismo ha il cosiddetto riflusso perché, finita l’illusione di risvegliare l’autenticità del mondo – premessa di rapporti umani degni di questo nome – dobbiamo prendere atto che la soluzione interna, solo fra donne, anche quando ci sia, è parziale e non corrisponde all’espansione dei desideri. Perché questa verità è così dura da accettare? Perché non viene formulata come punto di partenza per una nuova fase? Perché se i gruppi di autocoscienza non sono arrivati a uno scioglimento dei conflitti reciproci fra donne che permetta di manifestare, senza schermarsi anticipando soluzioni affrettate o spavalde, tutta l’insoddisfazione quindi tutta l’aspettativa che c’era e che c’è nel rapporto con l’uomo, l’ammissione di questa verità è impossibile in quanto scatenerebbe la delusione e l’aggressività delle altre e renderebbe temibile il sarcasmo degli uomini.

Ecco dove il testo di Moderata Fonte «Il merito delle donne» è stato per noi un’avvisaglia di tutti i punti morti che un gruppo incontra quando le premesse dell’autocoscienza non sono portate fino in fondo, e ha potuto esserlo perché manca in Moderata la malizia di parlare facendo riferimento alla cultura. Questo è un caso più unico che raro – un libro per le donne scritto da una donna alla fine del ‘500 – e fa riflettere il fatto che non sia stato preso in considerazione né capito fino all’interpretazione che ne ha dato Anna Jaquinta. Lì la baldanza di un gruppo di donne si sfalda di fronte alla constatazione che non esiste vittoria se il prezzo da pagare è la solitudine e la rinuncia a un tentativo di un’intesa affettiva con l’uomo. Su questo scoglio siamo incappate e rientrate a più riprese per quattro secoli. Ora è il momento di affrontarlo, quindi chi ha detto che il femminismo storico è morto? Il punto di partenza è appena sfiorato.

La solitudine del critico, Avanti!, 13. dic. 1963, p. 3

Mi è accaduto spesso, dalla posizione di critico non ufficiale che ho assunto, di constatare fino a che punto gli artisti considerino i critici in modo strumentale e come in sostanza li ritengano una categoria estranea al loro lavoro e alle loro preoccupazioni. La lunghezza dell’articolo, la rivista su cui viene pubblicato, il potere persuasivo della firma finiscono con l’essere per loro argomenti molto più interessanti dei possibili contenuti di un’esegesi critica. Di questo, che è il sottofondo di sfiducia tra chi produce opere d’arte e chi dovrebbe costituire il trait d’union tra esse e il pubblico, i critici hanno preso atto con disinvoltura assumendolo come una fatalità e comunque rifiutandosi di considerarlo come un sintomo della loro inefficienza. Devo confessare che, al contrario, la cosa mi ha sempre sorpreso e mi si è posta come un interrogativo tra i molti in cui mi sono imbattuta da quando ho intrapreso, come un’attività tutta da inventare, questa professione. Eppure è un sottinteso che avrebbe dovuto spingerli a una presa di coscienza dei loro limiti in cui si svolgeva la loro funzione e della necessità di arricchirla di nuovi sbocchi vitali anche perché, su quel piano di strumentalizzazione, è evidente che i critici hanno nei mercanti, categoria che si va poco a poco intellettualizzando, dei concorrenti da non sottovalutare. Il contratto, la mostra, l’acquisto delle opere si sono rivelati strumenti imbattibili per la riuscita di una buona politica culturale, superiori a qualsiasi appoggio critico, e talvolta sua premessa automatica dal momento che ogni Galleria di una certa importanza ha intorno a sé dei critici che sottoscrivono le scelte del mercante e ne propongono essi stessi. Non c’è dubbio che il problema essenziale per un artista sia oggi quello di avere dei legami con una Galleria e solo subordinatamente con i critici che tanto, questo o quello, finiscono sempre col farsi avanti. Mi è capitato di sentir dire bene e male dei mercanti da parte degli artisti; bene dei critici in quanto militanti, solo in casi rarissimi e con riserva. A meno che il critico non si presenti come il leader di un determinato movimento allora i rapporti cambiano e il critico difende le ragioni della sua scelta instaurando una fratellanza da stato d’assedio e una specie di disciplina di partito.

Comunque, e concludendo, alla considerazione tutta formale (si è visto) in cui gli artisti tengono i critici (peraltro perfettamente corrisposta, si è visto), i critici sono giunti attraverso provvedimenti sbagliati, ossia cercando di rinnovare il loro prestigio attraverso il potenziamento degli strumenti di potere piuttosto che della loro intrinseca funzione. E creando un costume ricattatorio (si è visto), che non va valutato moralisticamente, ma da un punto di vista esistenziale, come tentativo estremo di recupero da parte di una categoria screditata agli occhi degli artisti, e inaccessibile al grosso pubblico. In una società come l’attuale in cui l’individuo agisce sotto la pressione di incalcolabili stimoli al prestigio e all’efficienza, la condizione del critico militante, così esposto alla vanificazione dei suoi titoli di merito, non può essere afferrata pienamente se non si tiene conto di queste forze che agiscono su di lui in maniera massiccia e spesso drammatica. Nessun uomo, quale che sia la sua attività, sfugge agli incentivi del mondo contemporaneo, né gli sarebbe utile sottrarsene, ma ciascuno ha a sua disposizione una gamma di possibilità pressoché illimitata di reazione. Da questo punto di vista ciò che mi preme mettere in evidenza è la condizione abbastanza rovinosa di una istituzione che, indotta da sollecitazioni molteplici a includere nell’area dei propri interessi gli avvenimenti artistici in corso, pretende di parteciparvi senza rinnegare niente di se stessa in quanto ufficialità. È dell’uomo di oggi sentire continuamente le sue convinzioni e gli scopi della sua azione messi in scacco dall’avanzare di nuove convinzioni e nuovi scopi connessi con ogni sorta di avvenimenti imprevedibili e prevedibili, tra questi ultimi il comparire puntuale delle generazioni successive che si presentano avendo scontato automaticamente quegli assilli sui quali parte dell’umanità ancora si dibatte. L’individuo, come è stato detto di recente, non ha più la consolazione di approdare allo stato tradizionale dell’uomo adulto, non si trova mai nella condizione di aver qualcosa da insegnare anzi, col passare degli anni, viene sottoposto a un’offensiva sempre più greve che mette in dubbio la sua stessa consistenza di individuo. Molti gesti dell’uomo moderno vanno interpretati unicamente come risposta a questa offensiva che costituisce la sua condizione permanente di tensione, molti gesti aberranti ma anche molti gesti che inaugurano un nuovo modo di essere al mondo, un modo che aspira ad accordarsi gioiosamente con il continuo ricambio di energie che mai come ora hanno percorso e reso fremente il genere umano.

Nella misura in cui il critico, abituato ai privilegi istituzionali, si illude di una veggenza e di una facoltà particolare di coordinamento dei dati della realtà, che lo immunizzino dalla continua perdita di controllo della situazione e che addirittura gli permettano di programmare i termini di un superamento della produzione artistica in atto, compie un gesto angosciato e angosciante. Se è vero che proprio nella scienza il metodo dell’incertezza, reso necessario dall’indefinito moltiplicarsi delle variabili, ha sostituito i postulati dogmatici di un tempo e ha rappresentato l’esperienza psicologica decisiva al formarsi di una nuova generazione di scienziati, la critica d’arte ha mantenuto, e esteso alla contemporaneità, criteri di assolutezza idealistica veramente controtempo. Ora, il critico che accetta il ruolo, tutto formale, di una supervisione concorre a riconfermare la società nella sua abitudine a devolvere all’autorità dei pater quelle responsabilità che spettano finalmente a ciascuno dei suoi membri. Il critico, insomma, mentre dovrebbe esemplificare il comportamento che è all’origine dell’opera degli artisti per fornire agli uomini ciò di cui maggiormente hanno bisogno, la tangibilità emozionante verificabile nell’opera, del modo in cui nell’universo del crollo dei valori si può accettare di vivere, si istituisce egli stesso come punto sopraelevato e come dispensatore di benemerenze civili e morali. E smentisce, con un abuso di potere, la conquista di quell’assoluta mancanza di gerarchie e di ruoli direttivi che costituisce il prato liberatore della ricerca degli artisti, contribuendo in tal modo a consolidare la frattura fra arte pubblico i quali invece sono impegnati, coscientemente o meno, nell’elaborazione di una nuova funzionalità dell’uomo nel mondo moderno.

Quando Argan, insigne storico dell’arte, abbraccia improvvisamente la causa delle poetiche di gruppo negando la possibilità di una creazione individuale non alienata, compie un gesto paralizzato dalla sua stessa volontà di contare. E quello che poteva essere uno scatto giovanile, una proposta di novità e di arricchimento delle metodologie di produzione artistica, si manifesta invece come un’operazione di chiusura, che pone un’alternativa ideologica artificiosa, com’è evidente appena si osserva il problema un po’ più da vicino. E non mi sembra un caso che la nuova professione di fede coincida in Argan con una difesa d’ufficio della sua funzione, quando postula il principio, sottoscritto da un filosofo, che le formulazioni teoriche dei critici possano avere una incidenza interna alla creazione artistica. Questo in un momento particolarmente curioso, e cioè quando di fatto gli artisti, più o meno, dei critici non sanno cosa farsene. E non a torto: infatti con la sua concezione dell’impegno come lotta culturale per imporre un determinato orientamento artistico, il critico si trova oggi in una situazione che continuamente lo contraddice, imponendogli un continuo aggiornamento delle sue scelte. In realtà questo tipo di impegno sembra aver assunto un esito negativo dal momento che viviamo in una epoca in cui l’individuo, finalmente libero dall’imperativo di adeguarsi a formule precostituite e a modelli etici dettati da necessità sociali, ha tutte le condizioni per accettare come verità quella che scaturisce dalla propria spontanea costituzione di coscienza. Non si tratta più di difendere le idee sul piano delle crociate, ma di convalidarle in riferimento a una propria autenticità individuale.

A poco a poco mi si è creata la convinzione che, di tutti i sistemi linguistici, quelli plastici costituiscano in qualche modo la sede naturale dove tale operazione di verità sta raggiungendo oggi il massimo di concretezza. E questa è la ragione per cui, da una generica inclinazione alle arti figurative, mi sono trovata strettamente partecipe degli sviluppi in corso nell’arte moderna. E dovendo ipoteticamente rispondere a una di quelle domande tremende che pongono di solito la TV o i rotocalchi, dove si può fare un solo nome, farei quello di Marcel Duchamp, per aver portato tale operazione di verità a un’evidenza di stato di grazia dalla quale non mi è possibile recedere. Così mi appare sostanziale che un critico d’arte svolga la propria attività indicando quelle realizzazioni artistiche che si presentino come elaborazione di tecniche di vita con le quali l’uomo dà prova di reagire in modo non necrotico alla caduta dei miti sociali, delle contrapposizioni di culture, di frontiere, di tradizioni, a quella che mi sembra giusto chiamare la sua nuova condizione cosmica. Un’esperienza di vita in qualche modo parallela a quella presa di possesso della libertà che determina le opere d’arte a noi contemporanee, diventa per il critico l’unico mezzo per stabilire un contatto con esse, posto che nessuna garanzia professionale è in grado di introdurre da sola alla loro comprensione. Il critico, come l’artista, non può pretendere ad alcun riconoscimento di rappresentanza in anticipo: come per la pittura, così per la critica non esiste più la categoria operativa nella quale insediarsi e conseguentemente agire. La fortuna del critico militante appare ormai interamente affidata alle risorse di un ambito e di una vicenda personali di sforzo e di penetrazione in vista di una verità personale da raggiungere.

CARLA LONZI